“U nostru Patri ritorna a la casa”, “Grazia Patruzzu amurusu, grazia”… chissà, forse saranno state queste le ultime urla dei ‘Fratelli’ che, a spalla, fra due ali di folla, riportavano il Crocifisso in chiesa. Un ‘viaggio’, come usano definire quella processione.
A Monreale. 45 anni fa, poco prima del’una del 4 maggio, si consumò l’omicidio di Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri che osò sfidare la mafia.
In quella notte, Basile rientrava a casa tenendo in braccio la figlioletta Barbara, assieme alla moglie Silvana. Aveva partecipato a un ricevimento a Palazzo di Città e poi assistito alla processione del SS.Crocifisso, celebrazione molto sentita in quell’angolo di Sicilia. C’era tantissima gente in quella lunga serata, eppure… eppure, fu l’ultimo ‘viaggio’ per Basile, nel cuore della fede e della sua vita. Un killer gli sparò alle spalle, incurante della folla e della piccola che Basile aveva in braccio e della moglie che cercò di parare il colpo mortale senza riuscirci.
Osò sfidare la mafia e la mafia non lo sopportò. Emanuele Basile pagò con la vita il suo senso di giustizia: un eroe per l’Arma dei Carabinieri, un fedele servitore dello Stato, un figlio di Taranto. Già, la sua Taranto che amava tanto e che, talvolta, non ricorda mai abbastanza la sua grandezza, forse.
La storia di Basile è quella di un uomo in divisa che credeva fortemente nella legalità. Quando arrivò in Sicilia, sapeva bene che da quel momento la sua vita era a rischio. Eppure, non esitò a collaborare con il capo della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano, ucciso dalla mafia nel 1979. Come si legge in rete, “dopo la morte di Giuliano, Basile continuò la sua indagine sui traffici di stupefacenti nei quali erano coinvolti i Corleonesi, nel pieno della loro scalata al potere ai vertici di Cosa Nostra nella Seconda Guerra di Mafia; in particolare, riuscì a ricostruirne le tracce attraverso l’accertamento dei movimenti bancari e ad accendere i riflettori sulla famiglia di Altofonte, che operava nel territorio della compagnia di Monreale; in via generale sotto la giurisdizione rientravano i comuni di Altofonte, Piana degli Albanesi e Camporeale, tutti sotto il controllo del mandamento di San Giuseppe Jato, rappresentato in seno alla Commissione Provinciale di Cosa Nostra da Antonino Salamone, generalmente sostituito da Bernardo Brusca. I risultati delle indagini lo portarono alla coraggiosa decisione di procedere, il 6 febbraio 1980 all’arresto in flagranza di reato per il delitto di associazione per delinquere a carico dei membri della famiglia di Altofonte, oltreché alla denuncia per lo stesso reato di Leoluca Bagarella, Antonino Gioé, Antonino Marchese e Francesco Di Carlo; le altre ipotesi investigative sulle famiglie legate a Totò Riina finirono nel rapporto del 16 aprile dello stesso anno, consegnato a Paolo Borsellino. Tra i suoi principali collaboratori anche l’Appuntato Giuseppe Bommarito, suo fedele autista, che poi sarebbe stato anche lui ucciso tre anni dopo insieme al successore di Basile, il capitano Mario D’Aleo”.
Per far luce sul suo omicidio, una lunga serie di processi, tra condanne e sentenze ‘stranamente’ smentite. Grazie alla testimonianza della moglie Silvana, furono arrestati quasi subito Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia e Armando Bonanno. Al settimo processo nel frattempo erano finiti sul banco degli imputati, oltre agli esecutori, anche i mandanti, i boss della “Cupola” imputati nel Maxiprocesso di Palermo: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, che vennero condannati all’ergastolo, e Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e Nenè Geraci, che invece vennero assolti. La posizione di Brusca venne chiarita successivamente da lui stesso, nell’ambito della sua collaborazione, affermando di aver partecipato all’omicidio. Il 14 novembre 1992 la Cassazione confermò finalmente il verdetto, rimandando alla Corte d’Appello di Caltanissetta solo la posizione di Michele Greco (fonte wikimafia.it).
Un eroe, il capitano Basile. Un fedele servitore dello Stato che resta un simbolo nella lotta alla mafia. Un uomo che non si è mai piegato, pagando con la vita. A cui non è bastato, quella notte, l’implorare scandito dai fedeli “Grazia Patruzzu amurusu”. Nemmeno il SS.Crocifisso fermò la mano dei suoi assassini.