Dall’ultimo incontro tra Governo e sindacati non sono emerse novità sul futuro dell’ex Ilva, solo la riproposizione che esso sarebbe legato al rilascio dell’A.I.A. ed alla stipula di un Accordo di programma sul quale, peraltro, le uniche informazioni disponibili sono quelle riportate dagli organi di informazione alcuni giorni fa e che gettano un’ombra inquietante su ciò che il Governo pensa sulla decarbonizzazione, in particolare su quella del siderurgico di Taranto. Si starebbe infatti lavorando ad un accordo di programma per un futuro basato su tre forni elettrici, impianti per il DRI e cattura della CO2; il piano prevederebbe una transizione strutturata su dodici anni, con la realizzazione di un forno elettrico ogni quattro anni che utilizzerebbe il preridotto di impianti per il DRI alimentati a gas.
Si vogliono quindi mantenere in attività per un tempo lunghissimo, quasi biblico, gli impianti del ciclo integrale, figli di una tecnologia inquinante e climalterante che tanti danni ha provocato in passato e che non ha futuro. Impianti alimentati ancora dal carbone, che devono essere spenti al più presto se, oltre all’indispensabile abbattimento degli agenti inquinanti, si vogliono davvero perseguire gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 55% entro il 2030.
Si tratta, peraltro, di impianti tra i più vecchi d’Europa, risalenti al secolo scorso, obsoleti e soggetti a frequenti malfunzionamenti e incidenti che, come quello che ha fermato l’altoforno 1, potrebbero avere gravissime conseguenze. Impianti che, per continuare ad operare, richiedono ingenti investimenti, del tutto antieconomici ed anacronistici considerando che nei prossimi anni occorrerà cominciare a pagare le emissioni di CO2 e che oggi, se a Taranto si potessero produrre 4 milioni di tonnellate di acciaio con gli attuali impianti, occorrerebbe comprare le quote relative a 2 milioni di tonnellate di CO2 con un esborso di circa150 milioni di euro.
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In Europa non si investe sugli impianti che marciano a carbone: entro il 2030 si prevede vengano costruiti 28 nuovi forni elettrici, con una capacità produttiva di 43 milioni di tonnellate annue di acciaio, di cui 24 sostituiranno impianti del vecchio ciclo integrale; la motivazione è semplice: le emissioni di CO2 con i forni elettrici sono pari a circa 100-200 kg per tonnellata di acciaio, a fronte dei 1.800-2.000 kg di CO2 per tonnellata di acciaio degli altoforni.
Soprattutto, la decarbonizzazione è il processo di riduzione e, tendenzialmente, di eliminazione delle emissioni di gas serra attraverso la sostituzione dei combustibili fossili, carbone in primis, ma anche petrolio e gas, con fonti di energia rinnovabili e pulite, come solare, eolico, geotermico e idroelettrico, e con l’idrogeno verde. Nelle tante dichiarazioni rilasciate da esponenti del governo in questi giorni le parole “idrogeno verde”, però, non le abbiamo mai lette, non sappiamo se per eccesso di sintesi o se perché, più semplicemente, l’utilizzo dell’idrogeno per i prossimi 12 anni non è assolutamente previsto. Intanto, in Svezia. H2GREEN STEEL prevede di raggiungere entro il 2026 una capacità produttiva di 1,3 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, prodotte utilizzando solo idrogeno verde, per poi arrivare a 2,7 milioni nel 2030 e, a regime, a 7 milioni. Se si vuol continuare a produrre acciaio a Taranto la strada da percorrere è questa.
Legambiente ritiene che il processo di decarbonizzazione vada avviato da subito e che la sua tempistica vada fortemente accelerata in modo da pervenire, prima del 2030, ad un primo obiettivo, costituito dall’abbandono della produzione a ciclo integrale. Ritiene altresì che contestualmente vada sviluppato un programma relativo all’utilizzo dell’idrogeno verde quale agente riducente. Occorre sostituire nel più breve tempo possibile, non certo i 12 anni ipotizzati, altiforni e cokerie con forni elettrici e impianti per la produzione di preridotto a loro servizio. Occorre cominciare a progettare e costruire gli impianti che producano l’idrogeno necessario a permettere una produzione non più climalterante, oltre che più salubre. Così ha senso parlare di un futuro di piena decarbonizzazione del sito siderurgico, altrimenti è facile pensare ad una operazione di green wasching.
Quanto alla ipotizzata cattura della CO2, nonostante si tratti di una tecnologia che risale agli anni Settanta del secolo scorso, attualmente esistono nel mondo soltanto una cinquantina di impianti CCS commerciali, in grado di catturare in tutto cinquanta milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno: solo lo 0,1 per cento dei quasi 37 miliardi di tonnellate emessi nel 2023. Una tecnologia costosa e ancora non disponibile su larga scala: non saranno certo i CCS a rendere davvero green l’ex Ilva.
L’Unione Europea ha messo a disposizione del territorio di Taranto gli 800 milioni di euro del Just Transition Fund per accompagnare e promuovere una transizione giusta, non certo per il mantenimento dello status quo o per far rimanere a lungo in vita impianti che marciano ancora a carbone.
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